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RIDENDO D'IMPROVVISO – da Il Pickwick.it

Dal 30 Luglio 2013 al 

RIDENDO D’IMPROVVISO

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Ridendo d'improvviso

La verzura rasserenante dell’Orto Botanico accoglie, mentre il giorno digrada verso la penombra dell’imbrunire, avvolgendo d’un senso di quiete; si attraversa il giardino sconfinato e ci si arresta dinanzi ad un portone in attesa di schiudersi sul cortile che alloggia il palco. Prima d’accedervi, ad ogni spettatore è chiesto di far la propria parte e di vergar di proprio pugno una parola, una frase, un’idea che possa fungere da spunto a chi di lì a poco salirà in ribalta; quando ci si accomoda in platea, in un angolo del palco giace una boccia di vetro gonfia di foglietti piegati, che recano impressi soggetti per microdrammaturgie potenziali, frutto dell’inventiva del pubblico; ma, come nella corsa degli spermatozoi alla fecondazione dell’ovulo, solo pochi giungeranno a destinazione, vedendo prender forma e fattezze compiute al proprio gene.

Sul palco, ai pannelli fasciati di nero che faranno da quinte, s’appiccicano ritagli di carta che raccontano collage di parole, alludendo a spunti di scene che si può immaginare già improvvisate. Nel mezzo, quattro leggii che accolgono altrettanti libri dalle cui pagine s’estraggono stralci; a dar finalmente voce alla scena, quattro attori interamente vestiti di bianco – interpreti-spermatozoi chiamati a fecondare l’ovulo-parola – le cui voci in lettura dapprima si alternano, di poi si mischiano in un confuso sovrapporsi che la musica inghiotte.
Via i leggii, spazio ai foglietti forieri degli input da vivificare; qualcuno, forse illeggibile, forse poco “sceneggiabile”, viene scartato a priori, appallottolato e gettato via, oppure rimesso nel mucchio a futura memoria. Il fuoco freddo è il primo degli spunti sul quale i quattro attori della QFC (Quella Famosa Compagnia) costruiscono la prima gustosa scenetta, ambientandola in una baita di montagna e cominciando a fornire prova concreta allo spettatore curioso ed inesperto dei meccanismi che regolano quella costola del teatro che s’impernia sull’improvvisazione: dopo un breve conciliabolo, gli attori sceneggiano al momento una storiella possibile, ciascuno assumendo un ruolo ben connotato ed interagendo con tempi e meccanismi che lasciano da subito intendere la collaudata sinergia e l’affiatamento del gruppo.
Nulla d’accessorio è in scena, fatta eccezione per due cubi di legno imbiancato e due sgabelli di ferro smaltato; tutto il resto, tutto ciò che viene evocato in ogni microstoria, è offerto agli occhi della fantasia dello spettatore dalla mimica degli attori, polistrumentisti della corporeità, flessa alle necessità dell’improvvisazione.
In ogni storia scrittura, regia e azione prendono forma collettivamente e all’impronta. In ogni storia si ricerca un effetto di comicità – per lo più trovandolo – generando sketch che talvolta puntano su ridanciani motteggi di grana grossa (complice anche la lascivia dello spunto: Cicciolina e il cavallo), talaltra sulle doti mimiche dei quattro – Giorgio Rosa, Tiziano Storti, Mariadele Attannasio, Susanna Cantelmo – che danno vita ad un ensemble concertistica in cui ogni strumento è evocato e solfeggiato (Il violino senz’anima), passando per improvvisazioni francamente deliziose come quella in cui, partendo dallo spunto Pomi d’ottone e manici di scopa, si immagina una Mary Poppins in seduta psicanalitica che ripercorre la genealogia dei propri poteri in un esilarante quadretto familiare.
Si susseguono, senza soluzione di continuità per un’ora e mezza, una decina di scenette, quasi tutte estremamente godibili, alcune anche congegnate, pur nella loro brevità, con un intreccio piuttosto articolato, come quella che, partendo dalla suggestione La leggerezza dell’essere, mostra prontezza e conoscenza del testo suggerito, evocando sulla scena in maniera allusiva e pregnante i tratti salienti dell’opera di Kundera, ritagliando per lo stesso scrittore ceco un ruolo di attore-narratore in assito.
Quel che colpisce non è solo l’affiatamento della compagnia di cui già si è detto, ma anche la capacità inventiva di sceneggiare all’istante storie conchiuse, che scenicamente funzionano e a cui non difetta la compiutezza drammaturgica, pur nella loro essenzialità e, a tratti, nel loro surrealismo (che non stona né guasta affatto, anzi!).
La sensazione generata da tutto ciò è che alla base ci sia una preparazione assai minuziosa, che non risiede evidentemente solo nell’allenare la capacità di improvvisare una storia da uno spunto minimo e casuale, ma anche – se non soprattutto – nell’affinare ciascuno le proprie doti amalgamandosi con gli altri, lavorando su canovacci che non saranno quelli della Commedia dell’Arte, ma che potrebbero in qualche misura rappresentarne una declinazione in versione 2.0, con gli attori che, pur non avendo dei veri e propri ruoli fissi, tendono in scena a polarizzarsi in uno (o due) attori principali ed in una (o due, se non tre) spalle.
Non sorprende dunque la capacità inventiva, evidentemente allenata a questa specializzazione teatrale (appare abbastanza chiaro che non tutto sia improvvisato al momento), così come non sorprende che chi è di scena paia proprio divertirsi, a momenti quasi faticando a trattenere una risata compiaciuta e spontanea per la battuta estemporanea appena sfornata. Incuriosisce chi scrive piuttosto la conoscenza delle metodologie di lavoro che sono alla base dell’improvvisazione teatrale, il che equivale un po’ al desiderio dell’appassionato fruitore di uno spettacolo calcistico di poter guardare dal di dentro il proprio gioco preferito, scrutandone gli allenamenti e la preparazione di quegli schemi che un allenatore geloso suole provare a porte chiuse.
Mentre mischiamo una riflessione ad una risata, ricompaiono in scena i leggii, questa volta disabitati da pagine scritte, e dinanzi ai quali ciascuno degli attori comincia ad accennare agli sviluppi successivi delle microstorie testé improvvisate, fino a che le voci di nuovo si mischiano in un confuso sovrapporsi. E ad inghiottirle ormai sono gli applausi.

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